mercoledì 4 aprile 2012

INDONESIA - TICKET TO THE MOON


Il primo che prova a rifilarmeli è ‘Jungle Man’, un arzillo vecchietto con il cappellino dell’Alitalia che organizza trekking nelle foreste di Sumatra. I suoi funghi allucinogeni, qui popolarmente ticket to the Moon, li espone in grandi foglie di banano, sul fondo di un innocente cestino da picnic.
  “Sono Golden Top, il meglio che puoi trovare, italiano.”
  “No, grazie, ho già fatto colazione” gli rispondo dal balcone della mia casa in stile batak, con il tetto a vela, mentre scruto l’orizzonte sul lago Toba e ciondolo su una sedia a dondolo. Sono a Tuk-Tuk, buffo nome che non ha nulla a che spartire con le carriole a motore di Bangkok. È il villaggio più visitato dagli stranieri nel Nord-ovest di Sumatra. I venditori ambulanti che propongono funghi freschi, raccolti sulle colline circostanti, qui sono un’infinità e hanno un’età che va dai cinque ai settant’anni. Alcuni ti piombano sotto il balcone a bordo di piccole canoe scavate nei tronchi, pagaiando, e ti propongono la loro verdura magica appena raccolta con quattro urli che attraversano la finestra. Ma non è cibo per tutti i banchetti.
  Il lago è un’oasi di pace, il turismo di massa acefala non è ancora arrivato e la maggior parte dei turisti sono stranieri in cerca di relax, di spettacolari spiedini di carne in salsa di arachidi, di esotismo e, perché no, di fattanze lisergiche naturali. Di sconvoltura ecologista.





  Tra i pusher locali si annoverano bambini e madri di famiglia, e alcuni albergatori scodellano frittatine drogate su richiesta della Spett. clientela. La polizia sembra non rompere per le questioni micologiche, forse ogni tanto ci prende l’astronave pure lei, e sembra che i locali vadano sulla Luna due-tre volte alla settimana. Se gli sbirri ti beccano con un po’ di marijuana, però, ti tocca iniziare a cambiare i traveller’s cheque.
  Amo il genere, ma solo una tantum. Non vorrei ridurmi come una parigina che conobbi a San José del Pacifico, altro villaggio della fattanza sulle colline di Oaxaca, in Messico. La tipa non aveva più la minima ombra di pariginità, lo charme lo aveva barattato in cambio di un fidanzo messicano tutto baffi, dei denti che non aveva più e dei neuroni andati a farsi benedire da un pezzo. Però vendeva hongitos che spakkavano, lei per prima, tanto che non era più in grado di pronunciare una frase compiuta.
  Esco a farmi un giro. Una volta lasciata la reggia la tranquillità si altera. I batak, la gente di questa zona, non è ancora riuscita a digerire l’occupazione olandese di oltre cinquant’anni fa, e considera gli stranieri come una banconota verde da spremere. Il merito, in buona parte, è dovuto all’hotel Toledo, il ghetto per turisti americani che si fanno infinocchiare su tutto. I bambini, di conseguenza, ti fermano con frasi tipo “Hallo Joe (non importa che ti chiami Gennaro, siamo tutti Joe), gimme money/bum-bum (caramelle/biro/monete)”. Quelli un po’ più cresciutelli vanno subito al dunque, con domande quali “Ma non sei tu che ieri mi ha chiesto di noleggiarti la moto?” o “Mi presti dei soldi? Te li rendo domani.” I venditori di artigianato che presidiano come blocchi stradali il lungolago abusano anche di due altre espressioni: “you can bargain” (ti danno il permesso di contrattare ai loro prezzi gonfiati con la pompa da bicicletta) e “bankrupt!” (quando ti sei allargato troppo nella suesposta tecnica della contrattazione, offrendo una cicca).
  Mi infilo in un ristorantino a sorseggiare un tè. Sono l’unico cliente, se si eccettuano un uomo e una ragazza seduti qualche tavolo più in là, apparentemente familiari della proprietaria (non consumano alcunché). I tre passano il tempo a calcolare quanto potranno rincarare la mia consumazione, senza staccarmi gli occhi di dosso. Alla fine il tipo non ce la fa più, deve farmi un paio di domande:
  “Come mai voi occidentali avete il naso così lungo? Non vorresti sposare la mia amica?”
  Strano accostamento. Gli rispondo che ho tutto lungo, ma non per questo sposo la prima che passa. Arrivederci.
  Sulla via di ritorno vengo bloccato da un ragazzino con una capigliatura a banana, sembra un metallaro bulgaro, se non fosse per i lineamenti indonesiani (metallaro indonesiano, alè). Si presenta:
  “Mi chiamo John Lenon - sì, con una enne sola -, ti interessano funghi appena raccolti? Sono ottimi, te lo garantisco.”
  I venditori mi hanno sfinito, ma forse è destino che oggi mi sconvolga. E poi, con un pusher che si chiama così, non gli vogliamo comprare un po’ di merce?
  “Sì, dài. Quant’è?”
  Acquisto l’intero raccolto, costa poco e, magari, incontro qualche vergine scandinava con cui dividerlo.
  Tornato al mio rifugio, però, gli unici che incontro disposti a condividere lo Shuttle sono una coppia di simpatici americani che potrebbero avere l’età dei miei genitori (ma non gli stessi gusti micologici). Lui ha baffi e occhiali da bancario, e ha avuto il coraggio di abbandonare il lavoro, vendere la casa e, con la moglie, fare le valige e viaggiare per qualche anno. Quando finiranno i dollari vedranno. Americani, si sa, quando fanno le cose vanno sino in fondo.
  Ripuliamo i funghi dalla terra e, per mascherare il sapore schifoso, li ingoiamo assieme a biscotti farciti. Hanno la cappella davvero grossa e per ingerirli bisogna masticarli a lungo.
  Dopo circa tre quarti d’ora cominciano a fare effetto e alle prime avvisaglie - inizio a mangiarmi le parole e le sponde del lago oscillano - saluto i due. Preferisco godermi la fattanza da solo, messo così non ce la farei a tenere una conversazione accettabile con degli sconosciuti. Accenno a fare due passi attorno alla casa e il fatto che il viola fosforescente e pulsante di alcuni fiorellini mi colpisca come cazzotti negli occhi mi fa capire che ormai sono bello su di giri. Al primo piazzista di qualchecosa che mi blocca, però, decido al volo di fare dietro front. Non vorrei imparanoiarmi nell’incazzatura, né sbandierare la mia condizione tossica a tutto il villaggio, ridendo come un demente in faccia a tutti quelli che incontro. Meglio contare le travi del soffitto in camera, lontano da occhi indiscreti.
  Mi butto sul letto, accendo l'iPod e attacca Big Science di Laurie Anderson. Inizio a navigare sull’aeronave che collega Saturno a Orione. I famosi bastioni. La mia ex fidanzata, quella gran vacca. Le formiche che cercano di salire sulle lenzuola. Le sconvolture di Zipolite che mi tornato tutte in mente, secondo per secondo, fotogramma per fotogramma. Ehi, dove ho messo la Nikon? Ah, sì, è lì, ok. Oh-oh-oh Superman. Che figata. Mi farei uno spiedino. Forse anche una sega. Però, che fatica. Chissà come sta mia madre. Cazzo se è gialla la mia maglietta. Quando torno mi tocca sgobbare, sul serio. Cavolo, come brucia lo stomaco, pare che ci sia la Terza guerra mondiale, là sotto. Mi sembra che qualcuno mi tiri i lati della bocca con una molla, e i muscoli, tutti, si tendono da soli. È meglio se mi copro lo stomaco, non vorrei prendere freddo e vomitare. Il lago Atitlan. O il lago Toba. Lo stesso viola. Yes, è scoppiato il temporale. Le gocce cadono sul tetto di lamiera, le sento una a una, sembrano sassi. Io il tetto, la pelle di tamburo. Molto, molto meglio di una sega. Sento tutta la forza di gravità, le braccia e le gambe si sono fatte pesanti. Sembrano legate al letto. Dalla porta che ho lasciato aperta vedo l’acqua che si tuffa dal cielo, unendosi a quella del lago. Riesco a spaventarmi per i tuoni, mi sembra di essere in mezzo a un oceano, la zattera che ho sotto il sedere oscilla fra le onde. Che sballo. O Superman.
  Mi alzo di botto. Un rompicoglioni, forse un ladro, ha fatto capolino per mezzo secondo sullo stipite della porta, ha infilato gli occhi e il naso (corto), mi ha regalato un mezzo sorriso di sorpresa e/o complicità, poi è fuggito. Lo sfanculo, chiudo la porta sbattendola. Non ci si può neanche sconvolgere in santa pace, meglio se attendo che l’effetto svanisca prima di mettere piede fuori, non vorrei combinare casini. Tipo strangolare il primo rompicazzo che passa. Mi accuccio di nuovo tra le lenzuola.
  Lentamente, molto lentamente, lo stomaco si calma, i colori riprendono la tonalità solita, la testa ritorna sulla Terra, la musica è finita, l’acquazzone pure. Posso alzarmi e andarmi a godere i colpi di coda del viaggione sulla sedia a dondolo, cercando di tenere a fuoco l’albero di papaya che interseca l’orizzonte. Altrimenti vomito.
  Una ciccia bionda, la vicina di casa che scorgo con la coda dell’occhio, sta cercando di chiudere la porta. Ci prova cento volte, ma non ci riesce e comincia a smadonnare cose anglofone contro le divinità dell’Australia. Non ce la faccio proprio, scoppio a ridere spudoratamente e non riesco a fermarmi. Devo di nuovo rintanarmi, non voglio sembrarle un idiota o un provocatore, ma la sua faccia è davvero buffa. E poi ha capito tutto.


Pubblicato su Frigidaire




da L'importante è muoversi
http://pietrowrites.blogspot.it/2012/03/limportante-e-muoversi.html



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