lunedì 11 giugno 2012

ITALIA – VITA DA FREE-LANCE



Ovvero: alla mercé degli inculadores


L’Italietta, è noto, è il paese dei puffi. E, soprattutto in periodi di crisi nera, gli squali escono a pranzo: si salvi chi può. Lavorare da free-lance nel nostro Paese, senza stipendi né contributi garantiti, non è un’avventura per tutti. Ci vuole una passione illimitata, pronta a sopravvivere alle cannonate (economiche, carrieristiche, esistenziali), oltre, se possibile, a un tetto sulla testa e due croste di pane in frigo. L’editoria nostrana, una giungla selvaggia affollata di inculadores assortiti, è il circo massimo in cui disoccupati, contadini alfabetizzati strappati all’agricoltura e latitanti travestiti da editori campano sulla pelle di ingenui e ambiziosi scrittori, fotografi, giornalisti. Contratti capestro, contratti falsi, concorsi taroccati, pubblicazioni mai pagate, tipografi mascherati da editori che sfruttano l’ego di vanitosi scribacchini con uno o più libri nel cassetto, gentaglia che a chiacchiere ti promette mare e monti e che, mezz’ora prima della pubblicazione, scompare nell’etere. Il circo è popolato da nani ed elefanti, l’editoria italiana da qualche Serio Editore e da una miriade di inculatopi. Razza resistente alle bombe atomiche, quest’ultima, che sa riciclarsi, rinascere dalle ceneri, tra un fallimento e quello successivo, magari cambiando nome e marchio, per poi rifare quello che sa meglio fare: inculare il prossimo. Razza endemica, peraltro, nel paese dell’arrangiansi e del tirare a campare, non importa se sulla pelle altrui. Purtroppo, fino a qualche anno fa, gli inculadores avevano i nervi più saldi di oggi: una volta dichiarati falliti dal tribunale, o ricevuta una cartella di troppo da Equitalia, non si suicidavano. Semplicemente passavano dal commercialista e si facevano fare un abito nuovo su misura.



Ecco una black list personale di incontri sventurati capitatimi in oltre un ventennio di frequentazioni editoriali. Tutti veri e certificati (contratti mai rispettati, richieste di invio di rendiconti con ricevuta di ritorno ignorate, note di collaborazione emesse e mai onorate), a prova di avvocati. Ha una funzione pubblica - vi eviterà di essere deflorati nello stesso modo e dalla stessa persona -, aiutandovi a offrire le vostre proposte solo agli editori degni di tale qualifica, schivando le mine vaganti. I nomi veri, ovvio, sono stati cambiati, perché è noto che gli avvocati, quelli bravi, sanno aggirare anche i documenti veri e certificati. Gli addetti ai lavori, tuttavia, non avranno bisogno di sforzi estremi di fantasia per capire di chi, in realtà, si parla. E, in ogni caso, i fatti citati possono essere un buon esempio, credo, per non farvi ingroppare come è successo a me (come dice sempre il papa, l’atto contro natura, a meno che non si sia omosensuali, fa male). I vostri contributi ed esperienze personali sono benvenutissimi. Facciamo girare la voce, è ora di fare piazza pulita dei pirati, marò(nna)!




FUZZI, IL RE DEI SOZZI
Un bel dì, qualche anno fa, un grafico di Bologna con il quale avevo lavorato, dà il mio nome a tal Fuzzi, imprenditore multi-mission uscito pari pari dagli anni Ottanta: villa sui colli, Jaguar per andare al bar, Rolex ai quattro formaggi. La sua ultima avventura da tycoon è una nuova mega-marina al porto di Rimini. Basta pescherecci per portare in giro i turisti tedeschi a suon di Raoul Casadei e di sogliole fritte, è l’ora di barche serie per ricchi seri (il Berlusca era sceso in campo poco prima, i tempi erano maturi per certa umanità). Fuzzi mi chiede un po’ di diapositive d’archivio su Rimini e dintorni, ne acquista una dozzina per una brochure pluri-patinata (che non ho mai visto), io emetto la mia fattura d’ordinanza, scadenza a 60 giorni. Passati i quali il mio conto in banca non ne ha beneficiato. Prima lo chiamo - ‘La salderemo senz’altro a fine mese, Scazzièri, non si preoccupi’ -, a fine mese nessuno mi salda alcunché, e io mi preoccupo. Seguono fax, uno alla settimana (la posta elettronica allora era fantascienza), per un altro paio di mesi. Regolarmente ignorati. Lo richiamo, non risponde. Una sera, forte di un bicchiere di Mateus di troppo, con un pennarello nero a testa grossa compongo il seguente messaggio politico su un foglio bianco A4: ‘FUZZI, RE DEI SOZZI, VAI IN KOSOVO’ (era l’epoca dei fuochi artificiali in Kosovo), e glielo mando, via fax, a casa. Il giorno dopo ricevo il bonifico. Un mese dopo la società di Fuzzi viene dichiarata fallita, mi sono salvato per miracolo.




TANFI, PLURIFALLITO RECIDIVO
Editore modenese, noto negli anni Novanta per aver pubblicato in Italia le gloriose guide turistiche AFTA, stampate nel Sud-est Asiatico. Costosissimo produrle – zeppe di foto, carta a cinque stelle, caro tradurle - prezzo di mercato (ovvio) esoso. Dopo qualche anno le AFTA italiane falliscono, a Cestino Tanfi - patròn della casa editrice - viene ufficialmente proibito dal tribunale fallimentare di anche solo pensare di mettere in piedi una nuova avventura editoriale. ‘Le è concesso, d’ora in poi, di dedicarsi esclusivamente all’ikebana e al balletto classico’, testuali parole della sentenza processuale che un infiltrato al tribunale, amico mio, mi ha fatto leggere di straforo. Dopo una settimana dalla sentenza, Tanfi è di nuovo sul mercato. Un modenese che si rispetti non si fa abbattere mai, manco da un bolognese rapitore di secchie, figuramose se una sentenza fallimentare lo ferma. Dopo qualche tempo Tanfi presenta la sua nuova creatura, il mensile dedicato alle isole Scogli e scoglioni, alla BIT (fiera del turismo) di Milano. A ruota gli scrivo, proponendogli alcuni articoli dedicati a svariate isole che ho in archivio. Zero risposte. Dopo mesi, un bel dì, mentre mi sto godendo una piacevole domenica pomeriggio in campagna da mio nonno, Tanfi mi chiama al cellulare. ‘ Scazzièri, ha qualche isola greca? Per domani?’. Minchia, mi dico. ‘Sì, Tinos’, gli dico. Corro a casa, scrivo l’articolo, preparo le diapositive. Come da istruzioni, le consegno il giorno dopo a un Pony Express che gliele recapita all’ora X al casello autostradale di Modena Sud, roba da pusher. Tremo per le mie diapositive (originali) ma, incredibile, il mese dopo esce un mio mega-servizio su Scogli e scoglioni. Tanfi mi ha trattato con i guanti, cosa rara: il testo non è stato cambiato e le foto sono stampate come dio comanda. E mi rispedisce le diapositive, in buone condizioni. Bravo Tanfi, si vede che l’esperienza tipografica delle guide AFTA è servita a qualcosa. Emetto la fattura. Mai pagata. Telefonate, fax, solleciti di svariata natura, a parte l’albanese spacca rotule che avrei dovuto mandargli (ma mi sarebbe costato). L’unica volta che il mariuolo si degna di rispondermi al telefono mi dice ‘La salderemo senz’altro a fine mese, Scazzièri, non si preoccupi’. A fine mese… avete capito. Qualcuno mi fa sapere dell’esistenza dei giudici di pace, per rogne entro un certo importo si può fare causa ai malavitosi GRATIS, evvai. Corro da un giudice (in pensione), nell’ufficio di Bologna ricavato nell’edificio delle mie ex scuole elementari. Vostro onore avvia la procedura e, dopo qualche mese (Tanfi è latitante), vado a fare una fila interminabile, tra miriadi di avvocati, all’archivio degli ufficiali giudiziari. Sono riuscito a far condannare Tanfi in contumacia, che non si è preso la briga di venire all’udienza. Per pignorargli l’auto, però, dovrei assoldare un avvocato a Modena, con il rischio (certezza) che il miserabile non abbia nemmeno un’auto. La gioia, però, di averlo fatto condannare in contumacia, nero su bianco, mi compensa del danno subito. Un mese dopo Scogli e scoglioni fallisce e scompare dalle edicole. Speriamo che pure Tanfi sia scomparso dalla faccia della terra.




BICCHIERONI, IL RE DEI MERDONI
Un bel dì mi contatta tal Giulietto Bicchieroni, un bischero di Livorno. ‘Sto inaugurando una nuova fanzine commerciale dedicata alle fiere italiane, un settore ricco di busine$$, c’è da far bene. Le va di occuparsi delle testate di Bologna e di Rimini? Testi e foto, a sua discrezione, seguendo il calendario delle fiere’. Benissimo, gli dico. Stabiliamo il compenso, tutto ok. Prima missione: l’odioso Motorshow di Bologna, orgia di lamiere e subumani, per fortuna compensati da qualche modella del genere donne & motori, roba per uomini veri e per fotografi che vogliono lustrarsi occhi e zoom. Affronto le torme di bovari scesi in città, sudo come una fontana per il caldo sahariano negli stand della fiera (fuori è dicembre e si gela, dentro è ferragosto), fotografo di tutto un po’. Mando a Bicchieroni il meglio del raccolto, diapositive originali (di cui non ho copie), un testo di accompagnamento. Prossima missione a Rimini. Ma la fanzine non esce. Mai. Fax, telefonate. Silenzio. Sia così gentile da restituirmi almeno le diapositive, gli scrivo con fare supplicante, avendo già dato per scontato che mai verrò pagato. Zero diapositive, gli mando una fattura per il danno subito (perdita delle diapositive originali), raccomandata con ricevuta di ritorno. Zero risposte. Giudici di pace, fila eterna dagli ufficiali giudiziari, condannato in contumacia. Déjà vu, come i soldi di Tanfi.



UN’INCULATA DAVVERO IMPORTANTE
Non ricordo né il cognome né come lo conobbi, so solo che si chiamava Registro (nome da contadino romagnolo) e che era un ammiratore dei fumetti di mio zio. Copriva la pelata con un codino di cavallo e faceva il grafico pubblicitario. Aveva uno studio a Vergiano, una frazione di Rimini, e usava l’aggettivo importante due parole su tre. Durante uno dei miei buen retiros sui colli di Verucchio, un bel dì mi affidò un primo lavoro, fotografia industriale, una giornata di sbattimento in una fabbrica di San Marino. Tutto andò al meglio, ne fecero un folder scintillante e mi pagarono pure. Andasse sempre così. La seconda missione fu più impegnativa: chiuso per una settimana, dall’alba al tramonto, a fotografare affettatrici per salumi, frullatori, macchinari vari e assortiti, nel seminterrato di un’azienda di Villa Verucchio. Come da accordi, per farli risparmiare (l’industria, il grafico), fotografai il tutto su diapositiva di piccolo formato. E lo sanno anche i bambini che le diapositive 35 mm non sono sufficienti per ingrandimenti tipo outdoor, grandi cartelloni stradali. A fine missione, selezionate svariate centinaia di immagini, le consegnai. Registro le esaminò, con tanto di lentino, al tavolo luminoso. Belle, benissimo, bravo, davvero foto importanti. Lavoro consegnato e accettato, emisi la fattura, importo per me importante (sei milioni di lire). Passarono i mesi, sei, quanti i milioni e i miei solleciti via fax. Copechi in banca zero, Registro latitante al telefono. Un giorno, finalmente, riesco a parlare con il suo sottoposto, un simpatico ciccione. Mi spiace, il cliente ha rifiutato il lavoro. E me lo dici sei mesi dopo? Almeno rimborsatemi le spese (rullini, sviluppi), chiesi loro. Mai vista una lira. Fesso che sono, che cosa potevo aspettarmi da un piadinaro mancato?




IL SAPORE DEL PACCO
Anni fa, un bel dì venni a sapere che nella mia città, la mitica Bulàgna, aveva aperto battenti e rotative un mensile dedicato all’America Latina: Calor. La rivista era fatta benino, li travolsi di proposte, forte del mio archivio zeppo di anni di frequentazioni fotografiche da Città del Messico a Porto Alegre. Mi pubblicarono svariati articoli, mi fecero recensire cd, stamparono addirittura una copertina con il ritratto di una mia ex brasileira. La giovane era ricca di perché, tanto che alla Fiera di Bologna, dove Calor aveva uno stand, un peone trafugò nottetempo il poster con la suddetta copertina ingigantita. Quasi ogni mese pubblicavano cosucce mie, tutte passate per le mani di Marino Chissà, un omaccione con giacche anni Ottanta da sbirro della Digos (Pubblico di tutto, anche i pornacci, basta che l’editore mi paghi, un giorno mi confidò; poi Chissà cambiò fashion, smise le giacche con le spalle superimbottite, si fece frate comboniano e partì per l’Africa). L’editore capo, Giangi Marelli, mai lo incontrai. Ma era a lui che spedivo le mie fatture. Mai pagate, nemmeno una. Datosi alla latitanza, poi si è riciclato (risorto dalle ceneri, facendo finta che il passato non esista) e si è rimesso a fare l’editore. Dell’esperienza di Calor mi rimane qualche cd recensito e la gioia di aver fatto felice il ladro della fiera.




PUÒ ESISTERE QUALCOSA DI PEGGIO DI UN SAPUTELLO VENETO?
L’amica di un’amica, un bel dì, mi mise in contatto con Fefè Bragadin, responsabile del marketting della Aliante, un nuovo tour operator che aveva aperto una sede gigantesca di fianco alla tangenziale di Bo. L’azienda non poteva passare inosservata agli automobilisti, anche perché nel parcheggio aveva piazzato un vero aliante, opera suprema di visibilità. Quando incontrai Fefè mi si accapponarono subito i peli di sopra e di sotto. Occhialini da primo della classe, accento veneto mostruoso, parlantina da manager bocconiano che sa come va il mondo. Ma non ero lì per un’indagine antropologica, ero lì per fare scambiucci. E li ottenni: una buona selezione di mie diapositive del Sud-est Asiatico (originali, niet copie, da restituire dopo l’uso, ovvio), in cambio di un biglietto per l’amato Brasiu. Le foto servivano urgentemente, tanto che riuscii a vedere il catalogo fresco di stampa subito prima di imbarcarmi sull’aereo. Gli aviatori avevano fatto un lavoro discreto, anche se qualche immagine della Birmania era spacciata per Laos, in fondo un dettaglio irrilevante per un turista medio che non sa un cazzo di quei posti e vuole solo affidare i propri sghei a un tour operator che lo intruppi in un viaggio organizzato fra i pericolosissimi musi gialli. In Brasile, come al solito, ci stetti sei mesetti tondi. Rientrando da Malpensa, notai che a bordo tangenziale il capannone di Aliante sembrava un centro okkupato dai punkabbestie. Cazz’è successo??, chiesi all’amica dell’amica, non appena potei afferrare un telefono. Fallimento, processo fallimentare avviato, non ce n’è più per nessuno. Fui travolto da due domande, che rivolsi al volo all’am. dell’am. Fefè, dove cippa è? E, soprattutto, come faccio a recuperare le mie diapositive?? Risposte deludenti, nell’ordine: 1) si è trasferito a Milano, assunto da un altro Grande Operatore; 2) BOH. Inforcata la Vespa, cercai di risolvere la fazenda alla vecchia, con un’azione da uomo vero. Andai alle macerie dell’Aliante e mi feci aprire dal portinaio, un pensionato messo lì a vigilare le rovine dell’azienda, in attesa che il giudice fallimentare sequestrasse i macchinari, così da rivenderli in Africa e tirare su due spiccioli da dare ai creditori. Nel casino infame degli uffici riuscii a recuperare qualche diapositiva nei cestini, miracolo, tra fogli appallottolati e foto randagie di altri sventurati come me. Ma una quarantina, quaranta coltellate all’addome, mancarono all’appello, forever. Poi stanai l’indirizzo bolognese di Fefè sull’elenco del telefono, diedi il gas a manetta, raggiunsi il condominiazzo in cui viveva e suonai il campanello con una mano (con l’altra impugnavo la catena della moto per spaccargli a metà cranio e occhialini saputelli). Nessuno mi rispose, una vicina mi disse che quello lì, con la faccia odiosetta, aveva fatto trasloco pochi giorni prima.




MÙDNA, TERRA DI PIRATI
L’era degli scambiucci (foto x biglietti aerei) l’avevo inaugurata anni prima della disavventura con Aliante. Avevo proposto il baratto alla Persa Viaggi, un tour operator di Modena - Mùdna, per i conoscitori - specializzato nel Brasile. Al primo incontro fui ricevuto da Mr. Puppi, padre padrone dell’azienda, nel suo ufficio sul fondo della grande agenzia. Arredamento tipo motel brasiliano, Puppi conosceva la merce che spacciava. Belle foto, Scoràzzi. Mo shì, dài, facciamo ‘sto scambio, tio bò. E facemmo lo scambio. I ragazzi pubblicarono un catalogo sul Brasile con sole mie foto, e pure bene, tanto di cappello agli stampatori della Ghirlandina. Qualche mese dopo, un bel dì, mi capitò fra le mani il dépliant di una balerazza mudnese specializzata in lambada (allora i Kaoma imperversavano). Gli stronzetti avevano utilizzato una mia foto, la stessa pubblicata sul catalogo della Persa Viaggi, in copertina del loro pieghevole pirata. Senza nemmeno il mio nome. Li chiamai, forse risposero al telefono perché pensarono che fossi un disperato pronto a iscriversi al loro corso per casalinghe arrapate. Chiesi loro dove avessero preso la foto. Boh, non sho micca, forse da qualche rivista. Feci loro notare che le cose non funzionavano così, e che gli avrei mandato una fattura. Mo certo, mandi pure. Ovviamente non mandai alcunché, non avevo francobolli da sprecare. Per curiosité, però, chiamai anche Puppi e gli chiesi schiarimenti a riguardo. Mo, non sho, non li conosco, Scazzièri. Tra le sue esse schifoshe capii benissimo che li conosheva benisshimo, ma anche che non lo avrebbe mai ammesso. Dopo qualche anno e qualche altro catalogo, se Deus quiser, la crisi ha spazzato via la Persa Viaggi. Evvai, tio bò.




MÙDNA 2, TERRA DI MISTERI
Giò Parrucchieri, un collega scrittore di guide turistiche e di manuali di istruzioni per camper, un bel dì mi dà la dritta. Qui da me, a Mùdna, c’è un editore argentino, tal Verga, che pubblica ottimi libri fotografici. Perché non gli proponi qualcosa? Detto, fatto. Il giorno x mi presento dall’editore, con tanto di servizio di accompagnamento/presentazione da parte del fido Giò. Verga dà un’occhiata alla mia selezione di foto del Brasile, il progetto – scusate la banalità – l’ho chiamato Saudade, il meglio di circa vent’anni di peregrinazioni fotografiche attraverso il colosso sudamericano. È noto come argentini e brasiliani si amino allo stesso modo di italiani e francesi, ma questo argentino è speciale. Anch’io amo il Brasile. Facciamolo, mi confida, in uno slancio di amore per il País do futuro. Per un fotografo pubblicare un libro fotografico è né più né meno che partorire un figlio, tanto che alcuni arrivano a pagarne la stampa di tasca propria, pur di figliare. Al si fa di Verga mi prende un’euforia che faccio fatica a contenere. Ma il processo di selezione sarà lungo e scrupoloso, mi avverte l’editore. Voglio vedere TUTTE le immagini che hai del Brasile. Minchia, penso, qui parliamo di migliaia e migliaia di diapositive. Inizio quindi una specie di pendolarismo settimanale fra Bo e Mo. Sull’imbrunire arrivo in treno alla stazione di Mo, chiamo Verga, lui mi viene a raccattare, andiamo a casa sua, la moglie ci prepara una deliziosa cenetta e poi, davanti a un buon bicchiere di vino tinto, ci sorbiamo una lunga proiezione di diapositive, il contenuto di una valigia. Lui le seleziona con estrema accuratezza, facendo una prima cernita, poi una seconda, poi una terza. Ogni volta sul campo di battaglia cadono molte vittime, e ogni volta che lui scarta un’immagine io sanguino. Un pomeriggio, mentre è di passaggio da Bologna, viene lui da me, stavolta il cinema è a casa mia e il Mateus rimpiazza il vino tinto. In un paio di mesi di lavoro minuzioso, arriviamo al traguardo: 250 foto sceltissime, la crema della crema, ognuna passata almeno al triplo vaglio. Conservo il materiale prezioso in un luogo separato dell’archivio. E ora che cosa devo fare? Chiedo a Verga. Portamelo, ne faccio fare le scansioni, poi cerchiamo uno sponsor. Mi mancava il dettaglio dello sponsor… Ma come, non era cosa fatta? Ok, gli lascio le diapositive, temendo il peggio, poi un po’ di tempo dopo le vado a riprendere, lui mi dice di averne fatte le scansioni. Il tempo passa, non lo sento più. Lo chiamo. Allora, Diego, todo bien? A che punto siamo? Con la più grande naturalezza mi dice: Senza sponsor non possiamo farne nulla. Tu ne riesci a trovare uno? Mi cade il mento, pensavo che gli sponsor li avesse lui. Ma mi rimbocco le maniche, mando proposte a destra e a manca, ente culturale dell’ambasciata brasiliana, Varig, a chiunque sappia che cos’è una caipirinha. Nada, silenzio totale. E Verga scompare nel nulla, non l’ho mai più visto né sentito. Certo è che ora conosco ogni filo d’erba lungo la linea ferroviaria tra Bologna e Modena.




GRINFIESE, L’EDITORE VOLPONE
Nei periodi epici dei primi viaggi fotografici market-oriented, proposi ai quattro venti (una serie di editori scovati in libreria) una guida del Paraguay, la prima di due: avevo diviso il paese in Nord e Sud, un volume a punto cardinale. Avevo scritto sì e no il 10% della prima parte, un incipit che bastò ad accalappiare (così pensai, allora; in realtà fui io, a essere accalappiato), un bel dì, l’editore Giangi Grinfiese, publisher alla vaccinara del litorale ostiense. Quando disse sì, se fa alla mia proposta, mi sembrò di aver vinto la lotteria. Non solo avrei scritto un libro (due) dedicato al paese che più amavo dopo San Marino, ma avrei pure visto qualche copeco per farlo. Senz’altro l’inizio di una prestigiosa carriera di scrittore di guide, nei tempi in cui le Lonely Planet non erano ancora tradotte e gli italiani viaggiavano solo con la badante. Grinfiese mi spedì i contratti, uno per il Nord, l’altro per il Sud. Zero anticipo, zero royalties sulle prime 1000 copie vendute, qualche spicciolo e un paio di pacche di congratulazioni sulle spalle a partire dalla copia 1001. Nella mia ingenua innocenza di giovane volenteroso a caccia del futuro presi per buoni quei contratti. Contratti che, nelle aule dei tribunali, sono noti come contratti capestro, ma che rigirandoli fra le mani, nella mia stanzetta, profumavano di gloria e di futuro. Mi piegai a riccio per mille e una notti, scrissi la Treccani e le Pagine Gialle del Paraguay. Spedii a mie spese le diapositive migliori, imparai l’ABC dell’editing da un correttore di bozze di nome Crocifisso. Quando mi fu spedito il primo volume stampato e lo vidi quasi mi saltarono le coronarie. Avevo partorito, ero sulla Luna. Mi entusiasmai tanto per la cosa che, non soddisfatto di aver dedicato un anno non retribuito alla scrittura di due tomi, procedetti verso il terzo libro e contratto, prossima opera una guida della Groenlandia. Mia moglie non era contentissima della cosa, visto che mentre lei cercava di nidificare io regalavo il mio lavoro a uno di Ostia. A terzo libro partorito e zero royalties incassate, iniziai a leggere con cura i rendiconti che, come da contratto, l’editore mi mandava una volta all’anno. Le famose mille copie vendute non venivano mai raggiunte, anche perché dal mazzo del conteggio andavano detratte le decine regalate (non a me) per ‘promozione’. A un certo punto non solo non arrivarono i copechi, ma smisero di arrivare pure i rendiconti. Iniziai così un inseguimento dell’editore a suon di raccomandate con ricevuta di ritorno, con le quali richiedevo l’invio dei rendiconti. Grinfiese era irreperibile al telefono, e in un’occasione, d’accordo con il postino amico suo, riuscì nel miracolo: la mia raccomandata non fu mai consegnata, ufficialmente smarrita (missione impossibile, essendo registrata a ogni passaggio di mano) nei melmosi e merdosi meandri delle splendide Poste Italiane. Per farla breve: dopo oltre un anno di inseguimenti, telefonate, troppe file all’ufficio postale e troppissimi francobolli, i miei tre libri invecchiarono, andarono fuori produzione, quindi al macero. Grinfiese ebbe l’ardire di propormi l’acquisto dei medesimi, a prezzo di favore, prima che fossero trasformati in carta per avvolgere l’insalata a Porta Portese. A termine della disavventura, l’editore mi saldò i TRE libri con un assegno di 111.000 lire, numero forse satanico che, secondo lui, corrispondeva al totale delle royalties maturate, e che secondo me corrispondeva a quanto avevo speso in corriere solo per inviargli diapositive originali (restituitemi sporche e danneggiate), bozze e mappe (fatte a mano da me e da mia madre), senza contare francobolli, telefonate e molto altro. Come strascico del tutto mi è rimasta una cartella gonfia di solleciti e ricevute di raccomandate, oltre a un divorzio. Tutto sommato, ne è valsa la pena.




RENDICONTI, CHE COSA SONO?
Un bel dì, l’amico Danilo, ispanista pluridecorato nonché uomo di buone letture, mi dà una dritta. Tal Dàmmeli, tipografo della campagna veronese, ha deciso di fare il salto di qualité: stanco di stampare adesivi della Padania, vuole varare una piccola casa editrice. Fra le collane (collanine), una sarà dedicata alla scrittura di viaggio. Gli piazzo al volo il mio L’importante è spegnere la tv, un'antologia di racconti di viaggio. I ragazzi della Valpolicella, tra una bottiglia di vino imbottigliato come Bacco comanda e una fetta di polenta al somaro, mi sfornano un libricino fatto per bene. Dàmmeli, consigliato da un esperto addetto ai lavori, imita le Grandi Case Editrici e mi consegna addirittura un contratto di edizione, con tutte le clausole standard. Pagamento anticipo: 500 euro in contanti, in busta chiusa con una leccata, consegnatami brevi manu dall’editore-tipografo stesso una bella sera a bordo tavola in un serissimo ristorante del suo territorio (carne squisita, Amarone sega gambe, presentazione ebbra del libro a seguire). Sul contratto c’è scritto che l’editore, ogni anno, avrebbe dovuto farmi pervenire rendiconti e diritti d’autore ($) maturati. Voi li avete mai visti? Io no. Il libro è ancora lì che circola, chissà che fine ha fatto Dàmmeli (brutta, spero). Comunque poteva andarmi peggio. Almeno l’anticipo l’ho ricevuto, sempre meglio di cinquecento scaracchi in faccia.




A CHE COSA DIAMINE SERVE UN EDITOR?
Sull’orma del successo di Tropico Banana, un bel dì propongo il mio Vita da bianchetto, libro di viaggio ambientato in Mali e in Bukkina Fasu, alla casa editrice DDT, di Cuneo. Piccola casa editrice a conduzione familiare che sta avendo grande succe$$o per essersi accaparrata per l’ignorante mercato italico il diritto di traduzione dall’inglese delle celeberrime guide gastronomiche neozelandesi Homeless Kitchen. La casa editrice pubblicava un figlio minore, in perdita ma che dava lustro: la collanina Impronte, dedicata alla scrittura di viaggio. Giulietta Mastina, donna di buon gusto e di buone letture, somma editor in chief, acquistò al volo le mie cronache africane. L’editore mi pagò l’anticipo pattuito come da contratto e, addirittura, mi spedì a Gubbio a pre-presentare il libro ai venditori che, una volta stampato, lo avrebbero dovuto spacciare ai librai. Con tanto di prova di stampa della copertina. I mesi passarono, il libro non usciva. Dal Brasile, dove vegetavo, inviavo e-mail ricche di ? all’editor, seguiti da inquietanti silenzi. Un brutto giorno, finalmente, si degnarono di rispondere:

Gentile Pietro, mi scuso molto per averla fatta attendere. Le riassumo brevemente le motivazioni che hanno portato DDT a non pubblicare “Vita da Bianchetto”. Il suo testo è stato visionato dall’editore prima di andare in stampa, come del resto accade a molti testi, ed è stato allora che il suo lavoro è stato fermato e considerato non in linea con la collana. L’editore ha sottolineato la fragilità dell’impianto narrativo e ha trovato il testo poco soddisfacente sul piano della scrittura e dei contenuti, con troppe situazioni ripetute e di poco interesse e descritte, a suo giudizio, con tratti a volte obbiettivamente razzistici e con un linguaggio datato. DDT considera dunque nullo il contratto con lei precedentemente stipulato e le concede ampia liberatoria a pubblicare il suo libro con altro editore. Le auguro una migliore fortuna per il suo lavoro e le porgo i miei più cordiali saluti. Cristiana Luigi

Cristiana o Luigi? In ogni caso: mi dovevo essere sbagliato. Fino a quel giorno avevo pensato che gli/le editor fossero stipendiati per prendere in considerazione le proposte di pubblicazione, leggerle, promuoverle o respingerle, a nome dell’editore (la –e finale è piccola ma fa una GRANDE differenza). E che, una volta stipulato un contratto, questo valesse. Non avevo preso in considerazione che le case editrici, anche quelle piccole, funzionassero a compartimenti stagni, a comunicazione zero fra un reparto e l’altro. Per pura curiosità da serva, avrei voluto vedere quali casini orrendi scoppiarono alla DDT, quando l’editore Ferruccio, un quarto d’ora prima di accendere le rotative, si degnò finalmente di leggere il mio libro. L’unico dispiacere da parte mia, in tutta questa avventura, è la lavata di testa che la brava Mastina deve aver subito per mantenere scrivania e stipendio. Editoria italiana, gran brutta bestia.




NON SOLO ITALIETTA
Mentre sto svernando a Goa, un bel dì un cliente di Singapore mi assegna una Missione Importante: una guida fotografica di Delhi. Da Panjim prendo un aereo per la capitale, trovo una bettola dove dormire, assoldo un autista e il suo rickshaw scoreggiante per quattro giorni interi. Dall’alba al tramonto ci trasciniamo dappertutto in quel casino di città a fotografare cani e porci. Tra questi, anche la libreria principale del glorioso editore Bubbharat, il numero uno nella Grande Madre India per qualità di libri fotografici. La sua libreria è un’istituzione in città e nel mondo editoriale indiano. Quando la raggiungo vado a stanare l’editore nel suo ufficietto. Baffoni indiani d’ordinanza, sorrisetto da figaiolo, aria di uno che sa come vanno le cose, fare cosmopolita, telefono che squilla ogni due minuti, dall’altra parte qualcuno che gli chiede un favore o un’attrice di Bollywood che lo invita a prendere l’aperitivo al country club. Uomo di successo, senz’altro. Mentre ottengo il permesso di fotografare la sua stamberga, le rotelline del cervello si agitano. Perché, visto che sono qua, non gli propongo qualcosa? E gli butto lì il mio progetto Saudade sul Brasiu, quello concepito ma mai partorito, frutto delle mille proiezioni a casa dell’editore modenese-argentino. Interessante, lo valuterò, mi fa Bubbharat con aria quasi convincente. Mi mostra alcuni suoi libri, di ottima qualità, perlopiù sull’India. E mi fa la proposta: Senti, da tempo ho in testa un libro, ma non ho ancora trovato il fotografo giusto per farlo. Potresti essere tu. Si tratta di un libro incentrato sulla comune radice culturale fra Kashmir e Pakistan. Fratelli musulmani a cavallo tra due paesi. Che cosa ne dici? Ci penso qualche secondo, travolto dall’entusiasmo, come sempre accade quando qualcuno mi propone un nuovo progetto, di qualunque cosa si tratti. Sì, certo, mi piacerebbe molto. Ma… Al Quaeda? Temo di essere troppo bianchetto per una tale avventura (all’epoca gli occidentali in quelle regioni erano ricercati come conigli da rosolare per il banchetto di nozze). E, by the way, quanto pagherebbe a foto pubblicata? Bubbharat ci pensò mezzo secondo, fingendo incertezza. Venti euro, disse, con la più tosta delle facce toste. Come se fosse un prezzo più che adeguato, se non addirittura generoso. Ci devo pensare, gli strinsi la mano, corsi al mercato a farmi quattro risate e un paio di chai per dimenticare l’incontro. Non ce l’ho fatta, non l’ho mai dimenticato.





IL RE DEGLI INCULADORES
Tutti i galantuomini incontrati fin qua sono nulla rispetto all’Imperatore Massimo. Egli è noto ai più, ma in particolare lo è a mio zio Felipe, il noto e geniale disegnatore+scrittore. Zio è pigro, ma quando decide di muoversi lo fa in Grande. Così, un brutto dì, appioppò non uno, ma TRE libri a tal Roccamerdi, di Latina. La dritta gliel’aveva data Francisco Pavo, un cileno anoressico amico suo spacciatore di affari del secolo. Noto fra gli amici come ‘Il Merda’, l’editore era un personaggio onnipresente nelle notti discotecare romane di tendenza. Pelata rilucente, sempre vestito di nero, la sua palla da biliardo scintillava sotto le luci stroboscopiche dei locali più in. E, come lui stesso diceva, pubblicava solo roba che faceva tendenza. Nel suo vasto catalogo, in effetti, si annoveravano i titoli più disparati, vagamente borderline, ggiovani e scoppiettanti: da quello dedicato ai collezionisti della bambola Cicciobello a quello dei feticisti per i gomiti delle donne. Lo stesso Roccamerdi, sotto lo pseudonimo di Merdrock, aveva pubblicato uno dei suoi titoli (una storiella di preti cibernetici, se ricordo bene). Zio lo travolse con tre pezzi dei suoi: Il cazzo stracciacazzo (un’antologia di racconti zozzi), San Marino fra le cosce (report su un clan di carbonari sanmarinesi che, contro ogni legge locale, si ostinavano a pagare le tasse) e, last but not least, il quasi best-seller Prima caccia i copechi, poi ti racconto com’è andata (Zio, nasando il pacco, aveva voluto questo titolo ad hoc per ammonire Roccamerdi a fare il bravino). Il Merda, Re e Imperatore degli Inculatopi, non fece il bravino. Stipulati e inviati a zio tre contratti di edizione con tutti i puntini sulle i, alla fine dei conti non cacciò mezza piotta. Zio provò ripetutamente a ottenere il dovuto, ma è ancora qui che si cosparge di unguenti le emorroidi. Poi venne a sapere che questa era la prassi del pelato: pubblicare e non pagare, mai (ne faceva una questione di onore). Era un plurifallito recidivo che, a suon di chiacchiere, dopo ogni sequestro effettuato dagli ufficiali giudiziari scovava un nuovo gonzo da spellare ($ponsor) e rinasceva regolarmente come topo di scogliera. In un’occasione, mentre ero alla Fiera del Bestiame a Torino a provare a spacciare alcuni miei libri nel cazzetto, mi cadde l’occhio sulla pelata roccamerda. Il ratto aveva un piccolo stand, dove spiccavano i libri di zio, venduti impunemente ai viandanti inconsapevoli del dietro-le-quinte. Come lo vidi, il destro mi si chiuse automaticamente, le nocche divennero bianche, ma bloccai il mio uppercut un secondo prima del gong. Ero lì per spacciare manoscritti, non per spaccare manovratori di scrittori. Inghiottii l’odio faidesco-familiare e andai verso il famoso oltre. Aspiranti scrittori, fate molta attenzione. Se capitate a una festicciola romana di tendenza, aprite gli occhi e se avvistate una pelata in nero, scappate urlando vade retro, Satana!





domenica 3 giugno 2012

FILIPPINE - I TESORI DEI MARCOS


IL MALACAÑANG PALACE

Il febbraio del 1986 vide la rivolta popolare, spontanea e disarmata, della nazione filippina contro la dittatura dei Marcos, fuggiti in esilio alle Hawaii, dopo decenni di terrore, repressione e ruberie. Ferdinand Marcos, assieme alla moglie Imelda, altri familiari e quanti tesori più si potevano trasportare, fuggirono di soppiatto, in elicottero durante la notte, dal tetto del Malacañang Palace, il palazzo governativo, allora residenza privata della famiglia Marcos. Il successivo governo di Corazon Aquino, debole e costantemente bisognoso di propaganda per non ricadere nell'anarchia e nei soprusi dei militari, trasformò questo bel palazzo in un museo, per dimostrare al popolo la grande scelleratezza dei Marcos e l'assurdo lusso in cui questi vivevano, mentre il resto del paese soffriva la fame nelle numerose bidonville. Il Malacañang Palace, riordinato minuziosamente dopo lo sfacelo e gli sciacallaggi dei soldati che seguirono la fuga dei Marcos, è oggi un'alta opera di propaganda politica, parte dell'attuale palazzo presidenziali e del museo omonimo (http://en.wikipedia.org/wiki/Malaca%C3%B1an_Palace). Tutti i beni rimasti sono esposti con il massimo dell'accuratezza e dello sfoggio di lusso possibili: prime fra tutte, le oltre tremila paia di scarpe, famosissime, di Imelda Marcos, nota trafugatrice e ricettatrice di opere d'arte e tesori. Tutte o quasi sono firmate Magli o Ferragamo, e sono esposte in bella mostra, su lunghe, infinite file di scaffali. Fra gli altri gadget più incredibili risaltano i cuscini ricamati con i nomi dei due coniugi, la costosissima Mercedes in miniatura di loro figlio (oggi ritornato in patria ed erede politico del padre), utile per girare attraverso le ampie sale del palazzo. Ma anche i ritratti in posa plastica del dittatore, e le migliaia di confezioni di profumo francese, ancora intatte e avvolte dal cellofan. La disposizione e la quantità degli oggetti è sicuramente stata enfatizzata dal governo Aquino: ma, anche se un solo decimo di quanto è esposto al Malacañang Palace fosse realmente appartenuto ai Marcos, sarebbe più che sufficiente a dimostrare l'assurda follia collezionistico-ricettatoria dei due, soprattutto di Imelda, di origini umilissime e ideatrice dell'arredamento dannunziano. Imelda Marcos oggi, nonostante tutto, è stata riammessa nelle Filippine, ove vive e tenta di far rinascere il fantasma politico del marito scomparso: oggi spauracchio del passato, ieri simbolo del terrore e del sopruso.



IL COCONUT PALACE

Il Coconut Palace (Tahanang Maharlika in Tagalog; http://en.wikipedia.org/wiki/Coconut_Palace) si trova nei pressi del Centro Culturale e del FAT (Folk Arts Theatre), verso la parte periferica del Roxas Boulevard, in direzione dell’aeroporto internazionale. Si tratta di un palazzo magnificamente arredato, oggi residenza ufficiale del vicepresidente delle Filippine. Fu inaugurato nel 1981, dopo quattordici mesi di costruzione, cominciata nel 1979. Ideato da Imelda Marcos, fu eretto in breve tempo per ospitare papa Giovanni Paolo II, allora in procinto di visitare le Filippine. Ma il Santo Padre si rifiutò, attraverso le apposite vie diplomatiche, di venire ospitato in un luogo talmente sontuoso ed esageratamente adornato con mobilia pregiatissima mentre buona parte del popolo filippino faceva la fame. Giovanni Paolo II preferì alloggiare in un altro luogo, meno sfarzoso e appariscente. Il palazzo, divenuto inutile rispetto al suo scopo originario, fu trasformato in casa per gli ospiti dei Marcos (una fra le tante) e in seconda residenza per i due coniugi, oltre il palazzo governativo, il Malacañang.
Il Coconut Palace prende nome dal fatto che la maggior parte degli ornamenti interni sono costituiti da tronchi di palma, foglie e migliaia di noci di cocco, usate in scaglie al posto delle mattonelle. Ogni stanza riprende lo stile di una tra le etnie principali che compongono il vasto arcipelago filippino formato da oltre settemila isole, e le decorazioni degli ambienti sono formate da una strana mescolanza di eleganza e kitsch ‘etnico’, quest'ultimo rappresentato da innumerevoli soprammobili di gusto improbabile. L'edificio, tuttavia, nel suo complesso è caratterizzato da uno stile assai raffinato. Disegnato dall'architetto Manasa sulla base di un modello spagnolo, il palazzo è arricchito anche da mobilia e finestre in stile castigliano. La forma geometrica ricorrente nella struttura esterna dell'edificio, così come quella delle stanze, è l'esagono, in quanto è quella che meglio si adatta al taglio dei tronchi di palma. Il materiale derivante dal cocco, tuttavia, è stato utilizzato solo per le rifiniture e le decorazioni, mentre la struttura portante è stata costruita principalmente con il narra, il legno duro più diffuso nelle Filippine.
Il palazzo è diviso in due ali - sinistra e destra, dove sono situate le stanze ‘a tema’ - e in una zona centrale dove si trovano le aree comuni: il soggiorno, la stanza per la musica, lo studio e la sala da pranzo. Il soggiorno, illuminato da due candelieri (le luci sono avvolte da due grandi conchiglie, un elemento ricorrente nelle decorazioni), è abbellito con mobili in stile spagnolo in legname e giunco filippino. La stanza per la musica, dove troviamo un grande piano Yamaha, ospita anche un obelisco egizio intarsiato e ricoperto con lamine di corallo rosso. Lo studio, dove spicca una sedia con aquila sul poggiatesta, ha una libreria dove sono conservati libri appartenuti alla collezione privata di Marcos. Alcuni oggetti sulla scrivania, il tavolino per il caffè e altri accessori sono ricoperti da pelle di carabao, il bufalo d'acqua largamente diffuso nell'arcipelago. I muri del bagno attiguo sono invece ricoperti da fibre di cocco chiamate guinit.
La sala da pranzo vede al centro un grande tavolo sempre in legno di narra, intarsiato con gusci di noce di cocco, sia antichi sia recenti. Il soffitto, fatto a strati, è ricoperto da una carta da parati metallica, e i candelieri - pure in legno di narra - sono ispirati a quelli adoperati in occasione delle processioni religiose. Entriamo quindi nell'ala sinistra dell'edificio, dove troviamo le prime stanze ‘a tema’, quelle che riprendono gli stili delle popolazioni centro-meridionali del Paese. La camera Visayan, ispirata allo stile architettonico e decorativo dell'omonimo arcipelago centrale, ha mobili in rattan (canna d'India o malacca), materiale che costituisce la principale voce delle esportazioni delle isole Visaya (Iloilo, Negros, ecc.). Altri mobili sono decorati con corallo rosso, sia levigato sia grezzo. Dalla veranda si può godere una bella vista sulla Baia di Manila e di sera, se la luminosità è buona, si può arrivare a scorgere perfino la grande croce di Bataan (alta 95 m), costruita sul monte Samat - sulla dirimpettaia penisola di Bataan - per commemorare i 76.000 soldati filippini e statunitensi morti durante la Seconda guerra mondiale.
La stanza Maranao, popolazione musulmana che abita la grande isola meridionale di Mindanao, è decorata con elementi ispirati alla tradizione artistica islamica, come il Sarimanok, un uccello mitologico che simboleggia la maestà, il benessere e il potere. Quella dei Maranao è, fra le etnie musulmane dell'arcipelago, la tribù che più strettamente osserva i dogmi coranici, ed è nota per il suo artigianato in legno. La terza camera è quella dedicata ai T’boli, una tribù non musulmana che vive nell’area di South Cotabato, la regione più meridionale di Mindanao. I loro braccialetti sono stati usati per decorare la base del tavolino e della lampada, così come le loro perline colorate arricchiscono il baldacchino. Si Arriva quindi alla stanza Zamboanga, la quale prende nome dalla regione e dall'etnia del nord-ovest di Mindanao. Sia il pavimento sia i mobili e la struttura del letto sono in legno di palma, un legname in passato considerato troppo debole per le costruzioni, ma che attualmente, se adeguatamente trattato e indurito, sta avendo un grande successo nell'edilizia filippina. Il soffitto è decorato con un dipinto che riprende il disegno delle foglie di palma.
Tra le due ali del palazzo troviamo l'anticamera, anch'essa divisa in due parti: in quella di sinistra, decorata con il murale intitolato Santacruzan (una festa che si tiene in maggio), spicca su un tavolino una scultura in vetro verde, chiamata Madonna con il Bambino. Nella parte di destra, invece, si trova un altro murale, questa volta raffigurante scene del periodo coloniale spagnolo. Giungiamo così all'ala destra del palazzo, dedicata alle tribù settentrionali dell'arcipelago (la cosiddetta Mountain Province). La prima stanza è quella dei Tagalog, l'etnia che ha dato nome alla lingua più diffusa nel Paese. Stanziati nella regione di Manila e nella parte centrale dell'isola di Luzon, anche i Tagalog sono noti per l'artigianato in legno, che qui ritroviamo rappresentato dalle ciotole per il cibo sul tavolo e dalla struttura del letto. Sia il copriletto sia le tende sono in un tessuto chiamato Jusi, usato anche per tessere la camicia tradizionale filippina (Barong Tagalog).
L’ultima stanza è quella di Ilocos, dedicata alla regione nordoccidentale di Luzon. Questa è la camera più riccamente decorata, e dunque quella che, secondo le ipotesi dei Marcos, avrebbe dovuto ospitare il papa. Ha il maggiore bagno dell'edificio, costruito con legname e bambù locale chiamato Suuhiya, usato anche per costruire le ceste e le sedie. Dalla veranda si gode il panorama sulla Baia di Manila. Tra i mobili spiccano una sedia e un tavolino completamente ricoperti di madreperla (piuttosto kitsch ed estremamente costosi) e un tavolino da caffè decorato con foglie di tabacco appiattite e lucidate (il tabacco è il principale prodotto agricolo della regione di Ilocos).

Pubblicato su Frigidaire



ITALIA - IL DOTTORE DELLE PIPE

  

Così il Chicagoland Pipe Collectors Club americano ha diplomato, unico in Italia, Alberto Bonfiglioli. Ritratto di un cultore della pipa, da oltre quarant’anni maestro del settore

Via Bertiera è un’antica stradina del centro storico, a due passi dal più noto canale coperto di Bologna, tra via dell’Indipendenza e la zona universitaria. Qui, da quindici anni, si trova il negozio-laboratorio di Alberto Bonfiglioli, artigiano e cultore della pipa. Un prezioso luogo che sa di altri tempi e che è punto di ritrovo per la sessantina di soci del Club della Pipa. Come recita il motto all’entrata della saletta per i soci, Dilectam et sanam nicotiana tabacum inflammo. Un piccolo tempio nato circa trent’anni fa, dove gli amanti della pipa, tra una boccata e l’altra, si ritrovano ogni pomeriggio (il venerdì consacrato alle riunioni ufficiali) a giocare una mano di briscola e a parlare della classica trimurti: donne, pipe & tabacchi.


La prima boccata, poi la scelta di una vita
Nato a San Giovanni in Persiceto, nella provincia bolognese, il giovane Bonfiglioli iniziò a dare una mano in famiglia all’età di sedici anni. Messo dietro al bancone del bar-tabaccheria del padre, circondato da pipe e da tabacco, non poté fare a meno di sperimentare quegli ‘strani’ oggetti che alcuni clienti sembravano venerare con particolare dedizione. Per il battesimo del fuoco usò del tabacco Revelation, all’epoca parecchio tosto e venduto a cubetti, difficile da fumare (oggi è ancora venduto negli USA, ma rifatto con una formula più ‘digeribile’). Il risultato fu che il giovane, dopo qualche boccata, si sentì il mondo scappargli da sotto i piedi. In un istante si ritrovò steso a terra, dietro il bancone, quasi svenuto.



Anche se gli inizi non furono facilissimi, l’amore per il tabacco e per le pipe poi divennero una vera e propria passione, tanto da farne il lavoro della vita. In oltre quarant’anni di attività, Bonfiglioli ha fabbricato pipe per diversi VIP (Andreatta, Trentin, Pertini e addirittura qualche innominabile del Vaticano…) e sviluppato un amore incontenibile per gli Stati Uniti. Ci va costantemente, più volte ogni anno, per partecipare a tutte le principali fiere del settore (72 all’attivo, al momento della stesura di questo articolo) e per puro piacere. Le stelle-e-strisce gli sono entrate nel cuore, tant’è che ha visitato praticamente tutti gli Stati della confederazione e i Cherokee dell’Oklahoma lo hanno ‘adottato’, dandogli il nome di Sunbear. Negli States Bonfiglioli produce e vende due tipi di tabacco con il proprio nome, il Cornell & Dichl (10$ il barattolo, fatto a Morganton, nel North Carolina) e l’Alberto Bonfiglioli and Son, Blend 1408, prodotto dalla McClelland Tobacco Company (20$ circa il barattolo da 100 grammi, prodotto a Kansas City, Missouri). Lui, però, fuma solo tabacco Italia e cimette di Brissago (Svizzera), 40 grammi dell’uno e 40 dell’altro, mescolati. Le pipe dell’artigiano bolognese sono vendute in una decina di tobacconist selezionati, sparpagliati un po’ su tutto il territorio statunitense, e la UPCA (United Pipe Clubs of America) riceve annualmente la sua sponsorizzazione. Inoltre, visto che la pubblicità diretta non gli piace - le riviste americane succhiasoldi offrono coriandoli pubblicitari a 1400$ a uscita -, preferisce un marketing diretto, regalando una quindicina circa di pipe all’anno ai suoi migliori clienti statunitensi. Al mondo non esiste migliore pubblicità del passaparola, quando offri un prodotto di qualità e non tiri a fregare il prossimo…


Pipe, per tutte le tasche e tutti i gusti
Amante in particolare della radica greca, Bonfiglioli produce le proprie pipe anche utilizzando occasionalmente radica calabrese e sarda con una stagionatura minima di otto anni. Alcune, come il modello O.B.B. (old Bonfiglioli briar), hanno dai 20 ai 25 anni di stagionatura. Nel negozio di via Bertiera Bonfiglioli produce solo pipe su commissione. Per farne una come il maestro comanda ci vogliono almeno due mesi (ogni anno ne produce 4-500), per cui, in pratica, in vetrina non ce ne sono mai: sono vendute ancor prima di essere nate. Tra queste spiccano quelle natalizie, circa 25 esemplari all’anno, ormai da 12 anni, prenotate con largo anticipo. Il negozio, dunque, offre anche pipe di altri produttori, in particolare dei nomi italiani più pregiati, oltre ad accessori e assistenza. Il laboratorio vede un continuo viavai di clienti che portano pipe in riparazione, chi con un bocchino rotto, chi con incrostazioni ataviche da debellare, chi semplicemente a caccia di accendini con il beccuccio.
Tifoso sfegatato della Virtus, Bonfiglioli produce anche pipe commemorative bianche e nere, che riprendono i colori della squadra di basket del cuore. Queste appartengono alla famiglia delle pipe rusticate, più porose e, dunque, più facili da fumare, a seconda del tipo di tabacco utilizzato. Non tutti, com’è noto, sono in grado di fumare adeguatamente la pipa, soprattutto fra i neofiti, potenziali incendiari (nel curriculum l’artigiano vanta anche un anno e mezzo nei pompieri, e gli accessori di quel periodo decorano le pareti del laboratorio-museo). Dunque, nell’affollata vetrina del negozio, sono esposti anche alcuni cadaveri di pipa, fuse o traforate da fumatori incauti, quali esempi di cattiva condotta. Altre curiosità, inoltre, arricchiscono la famiglia delle pipe Bonfiglioli. Per esempio quelle da matrimonio, con la data e i nomi degli sposi riportati su una ghiera in oro e/o argento. Lo stesso artigiano, da molti anni, si ‘autocommemora’: in occasione del 19 luglio, giorno del proprio matrimonio, produce due pipe celebrative. La moglie non fuma (poche le donne dedite alla pipa, solo un paio che occasionalmente fanno una capatina nel negozio), ma il regalo è pur sempre apprezzato.


Marchio, prezzi e mercato
L’artigiano vende pipe dal 1967 e le fabbrica dal 1974. Il suo marchio è tra i più pregiati in Italia e all’estero. Le sue pipe oggi sono vendute soprattutto negli USA, in Finlandia, in Germania e in Giappone. Tra il 1996 e il 1998 aveva anche clienti a Taiwan e Singapore, ai quali vendeva pipe a circa 130$. I furbi clienti orientali, però, le rivendevano a 1000$, almeno fino al giorno in cui l’artigiano non iniziò a ricevere richieste da fumatori e collezionisti privati di quei Paesi, i quali gli chiedevano uno sconticino… La vendita on-line allora non era ancora diffusa, per cui scoperto l’inganno (il mercato è bello quando libero, ma se è troppo libero…) le forniture alle volpi d’Asia cessarono.
Le pipe Bonfiglioli sono contraddistinte da un marchio registrato in Italia e negli USA, rappresentato da un triangolino inserito nel bocchino, variabile a seconda del periodo di produzione. Triangolino dorato dal 1974 al 1987 (con variante bianca per quelle rusticate e argentato per quelle della serie top), bianco a partire dal 1987 (nero se su bocchino bianco). Oltre i triangolini sul bocchino, è riportato un numero romano che indica il mese di produzione, mentre l’anno è caratterizzato da un simbolo variabile. Quello del 2008 è il bulldog Jennifer, cane di un caro amico dell’artigiano.
Gli esemplari più economici sono le pipe rusticate, vendute dai 90 ai 120 euro. Quelle sabbiate costano un po’ di più, così come quelle lisce (rosse, leggermente scure, oppure naturali e chiare). Seguono la graduatoria - in termini di pregio e costi - le pipe collector, fatte in quantitativi limitati e numerate, con una ghiera d’argento e oro. La ‘regina’ della casa è la pipa La Stella, strumento ‘griffato’, con venature e diverse particolarità, da circa 400 euro all’esemplare. Basti pensare che negli ultimi vent’anni l’artigiano ne ha prodotte appena diciassette, meno di una all’anno.
La vendita di pipe Bonfiglioli è particolarmente attiva attraverso il sito web dell’azienda (www.bonfigliolipipe.it), ormai da una quindicina d’anni. Qui, oltre all’ampio catalogo dei prodotti e i prezzi relativi, si trovano un’infinità di indicazioni sull’attività quarantennale dell’artigiano, gallerie fotografiche e numerosi link dedicati alla pipa e al tabacco. Ma l’immagine forse più divertente ed emblematica è quella dello stesso Bonfiglioli che, pipa alla mano e berretto da vigile in testa, ci saluta dichiarando No smoking, please. This is the law in Italy. Un altro omaggio agli amati States e il pensiero del maestro nei confronti della legge antifumo. Forte e chiaro.

Pubblicato su Smoking




INDIA - GLI ACIDI FANNO MALE, FIGURIAMOCI AI TEDESCHI


Sull’autobus fatto di lamiere slabbrate e galline chioccianti che va da Panjim ad Harambol, a Goa, incontro Marco, tardofreak sulla quarantina.
“Sono svizzero, del Canton Ticino, ma quando viaggio da ‘ste parti mi vendo per italiano. Voi Azzurri comunicate più rispetto, specie ai ladroni che vanno a caccia di travellers’cheque, orologi con il cucù, tobleroni pregiati.”
“È da molto che sei a Goa?”
A vederlo sembra un aficionado del luogo, deve essere qui da sempre.
“No, sono in India da una ventina di giorni, ma ero già stato da queste parti molti anni fa. Troppi. Ora mi sembra tutto cambiato. Alberghetti per coppiette in viaggio di nozze, cheese macaroni per turisti americani, comunità di recupero per tossici, indiani che si fanno le pippe dietro gli scogli sbirciando con il cannocchiale le sporcaccione occidentali seminude. Tutto ciò, allora, non c’era. C’erano solo le sporcaccione occidentali seminude. Era tanto che volevo tornare, ma il lavoro, sai...”
“Che cosa fai a casa?”
“Il magazziniere. Una volta, con i miei compagni di lavoro, durante l’ora d’aria provammo una balestra che qualcuno aveva portato in azienda. Sparammo una freccia fuori dalla porta, alla cieca, e si andò a conficcare nella guancia di un tipo che pedalava in bicicletta. Si scatenò un bel casino.”
Di palo in frasca. A giudicare dall’aneddoto, i conti tornano. Guglielmo Tell da magazzino, odio per i ciclisti. Scoppiato quanto basta, perfettamente inserito nella cornice di Goa.
In fuga dall’iperorganizzata Colva Beach e da un vecchio dentista di Margao che ha provato a togliermi un ponte dolorante con le mani, mi sono spinto fino ad Harambol, ispirato da un bel servizio fotografico che ho trovato su una rivista donna. Stando al reportage, questa è la spiaggia più freak dell’intero litorale, l’ultima che non si è ancora svenduta al turismo organizzato e dove ha piantato le radici una comunità hippy integralista. Alcuni vivono nelle caverne tra la giungla e, a giudicare dalle foto, da queste parti devono circolare individui parecchio eccentrici. Ne può nascere un articolo interessante e, lo penso ma non me lo confesso, vorrei fare delle foto così.
Mi spingo con Marco oltre il laghetto di Harambol in cerca di una camera decente, vorremmo evitare almeno gli scorpioni nei letti. Oltre il promontorio c’è un piccolo hotel che sembra fare al caso nostro, le stanze che l’albergatore ci propone sono davvero carine e confortevoli. Il posto, però, è tremendamente isolato e, a giudicare dal sorrisino da gatto+volpe dell’israeliano che gestisce il posto, siamo telepaticamente certi che, non appena appoggiati i bagagli e calate le tenebre, di nostro nelle camere rimarrà solo l’odore.
“Forse è meglio se cerchiamo una stanza sulla spiaggia principale”, propongo a Marco.
“D’accordo.” Svizzero sì, fiesso no.
Troviamo due stanzette buie e iperbasic in una stamberga al limite del laghetto.
“Dov’è il bagno?”, oso chiedere al proprietario.
Sorry, no bathroom, Sir. L’unico ‘bagno’ è quello là - mi indica una specie di cabina del telefono fatta di bambù e frasche -, per usarlo basta pagare due rupie al guardiano. Oppure può scegliere tra il mare e la foresta. Di solito consiglio il mare.”
Mah.
Verso sera non posso più farne a meno, devo usare il bagno.
Pago le due rupie a un vecchietto secco secco, che in cambio mi allunga due pezzetti contati di carta igienica. Secca pure lei.
Aperta la porta della ‘toilette’, rimpiango di non avere una telecamera. Il water è composto da un’asse alla turca con un bel bucone nel centro, vista spiaggia. Tiro giù i braghini, mi accomodo a tripla distanza di sicurezza, faccio il mio sporco dovere. Fischietto e penso al bagno di casa mia.
La bomba non ha ancora colpito il bersaglio, che inizio a sentire uno strano rumore alle mie spalle, verso le parti basse, per l’esattezza. Un enorme maiale grigio topo, forse un cinghiale, accorso in silenzio ma superapido, ha afferrato al volo il boccone fumante e lo sta biascicando a quattro palmenti, manco fosse panettone. Deve aver sentito scricchiolare i cardini della porta mentre la chiudevo.
Non vomito perché credo che sia fisicamente impossibile occupare contemporaneamente le due vie di sicurezza, ma lo spavento improvviso misto al disgusto mi fa chiudere bottega in fretta. Anche perché non vorrei che l’operatore ecologico, non sazio, allungasse il naso e passasse ai piani alti, assaggiando i miei gioielli. La frutta. Butto un occhio sul fondo della toilette, e noto che del prodotto interno lordo non è rimasto alcunché, né le briciole né le due rupie di carta igienica.
“È normale - mi fa Marco quando, stupefatto, gli riferisco dell’incontro con Sora Natura -, anni fa questi erano gli unici spazzini di Goa. Il sistema è assolutamente sano, e in giro non rimane nulla, a parte l’alito dei maiali. Oggi, però, purtroppo, grazie alla fighetteria dei turisti, sante istituzioni come questa vanno scomparendo, e tutti gli alberghetti si sono dotati di bagni con il pozzo nero, molto più inquinanti.”
Strani, gli svizzeri, li facevo diversi.
Trascorsa una notte a schiacciare zanzare sui muri e a scacciare maiali neri cannibali dai sogni, il giorno seguente inizio a vagabondare qua e là, alla ricerca di bei soggetti da immortalare. Un tipo biondo con il turbante, dev’essere di Hannover, fa il bagno nudo nel laghetto, nella posizione del fior di loto. Una famiglia di turisti indiani lo osserva e lo indica ai bambini come si fa con la tigre al circo, ma lui sembra lievitare a due metri di altezza, tanta è l’indifferenza che dimostra nei confronti dei negri ficcanaso. Dalla foresta giungono voci quasi umane, deve essere qualcuno dei neotrogloditi che chiama un vicino di grotta per l’aperitivo.
In un istante mi rendo conto che la visione della mia Nikon turba l’umanità freak-chic locale. Appena notano l’obiettivo distolgono lo sguardo, innescando un ghigno schifato. Come cavolo avrà fatto il fotografo che mi ha preceduto a fare quelle foto (l’hippy che medita al lume di candela nella sua grotta, il party al chiar di luna in spiaggia, una tipa nuda che sguazza nel laghetto) così belle? Li ha ricoperti d’oro e si sono messi in posa? Non può essere andata diversamente. Anche i freak, si sa, tengono famiglia.
Vagando, incappo in una casa molto particolare, con un bel patio decorato da un’infinità di strani oggetti. Maschere, sculture, quadri, il tutto con colori quasi fosforescenti. Un tipo pelatino e baffuto rulla un cannone grande come un hot dog su un muretto e mi guarda serio da sotto il pelo da faccia.
“Buongiorno”, gli dico.
“Buongiorno”, mi risponde, ora con un sorriso. “Vuoi?”, mi propone, porgendomi il joint.
Sarà un busone?
“No, grazie, molto gentile, non fumo.”
Heinz, così si chiama, è di Amburgo e mi invita cordialmente a chiacchierare, mentre armeggia con fumo e cartine. Non è busone.
“Sono un fotografo - gli premetto - e sto facendo un servizio sulla vecchia Goa, quella degli anni Sessanta o, almeno, ciò che ne rimane. Ho visto un bel servizio sugli hippy che ancora vivono qui e vorrei fare qualcosa di simile. Purtroppo non ho qui con me la rivista, altrimenti te la farei vedere.”
“Beh, se vuoi, puoi fare un po’ di foto alla casa. Ma non a me, per favore.”
“Grazie”
Fatto qualche scatto, Heinz mi racconta la sua autobiografia. È un fiume in piena.
“Sono qui da una ventina d’anni. Ho campato per una vita facendo la spola dall’Afghanistan, importando tonnellate di fumo che vendevo ai turisti. Ora mi sono ritirato dall’attività, ho già i miei anni, e cerco di godermela, anche se Goa non è più quella di un tempo. Pensa che in questo periodo le autorità hanno persino proibito i moon party. Qualche tempo fa il figlio del governatore è morto di eroina, e da allora gli sbirri interrompono ogni festa. Il calendario, di conseguenza, è in costante movimento. Ogni volta si sceglie una spiaggia diversa, ci si impasticca, parte la musica, tutti cominciano a ballare nudi, ed ecco che un branco di sudici sgherri ti piomba addosso e inizia a manganellare a suon di bambù. Se ti beccano e hai i soldi per pagargli le birre e le zoccole ti lasciano andare, altrimenti...”
Heinz è partito a ruota libera, la sua più che una chiacchierata amichevole sembra un comunicato stampa. Annoto tutto nelle pieghe del cervello. Il suo tono è cordiale e disponibile.
“E hanno pure proibito il mercatino freak di Anjuna, un’istituzione di Goa fin dai tempi del concerto degli Who. Ora, in compenso, regnano sovrani i ristorantini che offrono carne di pescecane ai turisti e i cartelli che proibiscono il nudismo. Le riviste indicano dove trovare l’aragosta ad appena dieci dollari. Ti rendi conto?”
“Beh, sì, hai ragione, le cose devono essere cambiate parecchio. Se lo dici tu...”
Difficilmente riuscirei a fare il nudista, non ho il physique du rôle, e poi amo mostrare le mie parti intime solo a chi voglio io. Non mangio l’aragosta, né altri crostacei, mio padre mi ci ha stuprato la gola quand’ero piccolo (“Senti che buono, senti!”), e adesso a solo parlarne mi vengono i conati. Per quanto riguarda i mercatini freak ho già dato in gioventù. Ora soffro di allergia da odore d’incenso, ma lui ha il diritto di non saperlo.
Ringrazio Heinz per l’aiuto e la gentilezza. Lo saluto e proseguo la missione. A Vagator mi imbatto in Marco, con il quale inauguro un tormentatissimo torneo di backgammon al tavolo di un ristorantino. Come cornice sonora fa da sfondo il vociare tossico di un calabrese trapiantato a Cinisello Balsamo, gran bel mix di accenti, Garibaldi deve avere un attacco di epilessia nella tomba. Coso dibatte ad alta voce per ore sulle quotazioni e la bontà dell’afgano piuttosto che del pakistano, con volume distorto dalla troppa eroina presa a colazione. Ma è democratico, quindi ha deciso di deliziare tutti i frequentatori del locale con il suo monologo da fatturione, in un inglese che è meglio lasciar perdere.
Massacrato Marco, e massacratomi i timpani, mi incammino di nuovo. È buffo, un altro italiano ha issato un cartello sulla sua casetta di fango e frasche con la scritta Vero espresso italiano. Con la moka. In italiano sulla catapecchia.
Giunta l’ora di pranzo, mi butto nel primo ristorantino che incontro lungo la spiaggia di Harambol. Sull’insegna svetta un ritratto di Shiva dai colori lisergici, e il locale non può che chiamarsi Om.
Durante questo mio trascinarmi goano mi piacerebbe tanto incocciare almeno in una persona carina e interessante, con la quale parlare di tutto un po’, possibilmente non solo di quotazioni in borsa dell’hascisc e di quanto fanno quegli ultimi Superman arrivati freschi freschi da Amsterdam. In realtà, mentre mangio, mi scontro con altri due italiani, una grammatica e due volti da rifare, e due ragazzine tedesche. Queste ultime dicono di avere diciassette anni, ma ne dimostrano il doppio.
“Siamo fuggite da casa. Della scuola e dei genitori rompicoglioni non ne potevamo più. Fuck the system!
Mentre mi regalano questo manifesto politico, mangiano, così sembra, un pollo. In realtà, pare che il pollo lo succhino, lo triturino, lo schiaccino, lo spalmino, il tutto tra la faccia e le mani, senza smettere di parlare. Sarà per la mia educazione impostami a bacchettate dalle orsoline, ma il quadretto che mi trovo davanti mentre sto tentando di finire il mio pollo mi riporta immediatamente il maiale di ieri davanti agli occhi. Di colpo mi è passata l’appetito. Via, via di qui.
Al pomeriggio riesco a scroccare un passaggio da un prete locale. Con la sua Vespa raggiungiamo Old Goa, la vecchia capitale, un gioiello dell’architettura coloniale portoghese, oggi città fantasma. Le foto che faccio - crocefissi e stucchi dorati - non sono esattamente quelle che avevo immaginato, ma la conversazione con il padre è stimolante.
“Che sporcaccioni quei turisti, tutti atei. Pensa che vanno in giro nudi. Ogni tanto ne vedi due che si nascondono nella foresta. Chissà che cosa fanno, sicuramente andranno all’inferno.”
Sicuramente.
Sulla via del ritorno facciamo una sosta presso una comunità per il recupero dei tossicodipendenti. Gli ospiti sono tutti indiani e, così mi dicono, ogni tanto anche qualche occidentale viene parcheggiato qui dalla polizia. I presenti, nemmeno tanto giovani, come terapia separano montagne di chicchi di riso, uno per uno, dalle scorie. Vado via, prima che l’angoscia mi strangoli.

Ad Harambol è piombata la notte e, prima di uscire, metto nella sacca della macchina fotografica la rivista con il famoso reportage. Se incontro Heinz glielo voglio far vedere.
Infatti, dopo un po’, ritrovo il tedesco in una bettola lungo la spiaggia. Da buon tognino, le vecchie tradizioni sono dure a morire, si dev’essere bevuto un’intera cassa di birra, almeno a giudicare dell’alito e dallo sguardo liquido.
“Ciao, Heinz, come stai? Ecco il servizio di cui ti parlavo. Mi piacerebbe proprio fare delle foto così...”, e glielo allungo.
In una frazione di secondo il mio ‘amico’ cambia improvvisamente espressione. Inizia a sbraitarmi addosso.
“Che cazzo vuoi? Perché sei venuto qui, a spiarci? Perché non te ne vai con la tua macchina fotografica del cazzo a Disneyland?? Via, vattene di qui!”
Accenna un inizio di aggressione, ma poi si trattiene. Anche se ubriaco fradicio, si rende conto che non è il caso di combinare casini di fronte a testimoni, forse ne ha già avuti anche troppi. Qualcuno lo trattiene dal mettermi le mani addosso. E poi, se ci prova, gli schianto la Nikon sul cranio.
Me ne vado, esterrefatto. Solo ora il postino afgano si è reso conto che voglio fare sul serio un servizio sui suoi colleghi. E il mix ventennale di acidi tornati a galla grazie a qualche ettolitro di birre, seppur indiane (fiacche), ha fatto venir fuori Mister Hyde. Domani lascerò Goa. I suoi fantasmi incartapecoriti mi hanno stufato. Mi divertirò di più a fotografare le mucche di Bombay e le loro enormi cacche sante.

da L'importante è muoversi
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